La peste è un tema che gode di grande fortuna nella letteratura sia antica che moderna; colpisce l’immaginario dei poeti e scrittori l’idea di un morbo che esplode all’improvviso da una fonte sconosciuta e che rapidamente dilaga causando morte e distruzione. Le epidemie sono anche occasione per descrivere gli effetti sul corpo dell’uomo. Inoltre permettono di riflettere sulle origini del male (divine o naturali) e di valutazioni più o meno pessimistiche sul deterioramento della civiltà umana che essa portano con sé.
Omero il narratore. Nel primo libro dell’Iliade troviamo la prima attestazione nella letteratura greca. Agamennone rapisce Criseide figlia del sacerdote Crise, e la obbliga ad essere sua schiavo nel suo palazzo; Crise cerca di liberarla prima chiedendo direttamente ad Agamennone che però rifiuta, poi chiede aiuto agli Achei che non riescono a liberarla. Crise allora, rivolge una preghiera ad Apollo, che infuriato per ciò che il sacerdote gli racconta, scatena una pestilenza contro gli Achei.
Sofocle, tragediografo greco. Nella sua tragedia Edipo re, appartenente al ciclo tebano dell’autore, la pestilenza affligge la città di Atene. Essa ci dice, ha una origine sovrannaturale: è calata sulla città per colpa dei delitti di Edipo, l’uomo che ha ucciso il padre si è unito alla madre Giocasta. La tragedia esordisce con l’accorato lamento dei tebani: questi chiedono aiuto al re Edipo per il male che li sta consumando. La pestilenza decima la popolazione di Tebe. Per salvare la città dal morbo, il re invia il cognato Creonte di recarsi presso l’oracolo di Delfi e l’oracolo spiega che per attutire l’epidemia è necessario espellere da Tebe l’assassino del re Laio. Solo così Edipo scopre di essere l’assassino del suo stesso padre. Il signore di Delfi, infatti aveva due volti: era la divinità terribile e mortale che inviava le pestilenze, ma anche il dio guaritore a cui rivolgersi per farle cessare. La tragedia di Sofocle, in questo caso, analizza la fragilità e l’illusione della potenza dell’uomo sulla terra: chiunque può ritrovarsi, in breve tempo, da uno sfolgorante periodo di vita al più abbietto dei destini.
La Peste di Siracusa. Diodoro siculo, storico siciliano, nella sua Biblioteca Historica (XIV 70, 4-71), opera in 40 libri, descrive una grande pestilenza che colpisce l’esercito cartaginese che cingeva d’assedio Siracusa nel 395 a.c.. A prova della natura epidemica – contagiosa della malattia , Diodoro scrive che “tutti quelli che avevano qualche comunicazione cogli ammalati si ammalavo essi stessi dello stesso morbo”, la peste descritta ha delle similitudini con quella di Atene e potrebbe essere stata causata da pratiche igieniche inadeguate. Pare che le zone paludose circostanti la città e la malaria potrebbero aver avuto un ruolo. Scrive Livio: si aggiunse anche a questi fatti una pestilenza, un male comune che distoglieva facilmente gli animi di entrambi gli eserciti dai propositi di guerra. Infatti nonostante l’autunno e i luoghi impervi per natura tuttavia molto più fuori dalla città che dentro la citta, un’insopportabile febbre colpì i corpi di tutti attraverso entrambi gli accampamenti. Inizialmente per colpa del tempo e del luogo si ammalavano e morivano, poi la cura stessa e il contatto tra i malati diffondevano il morbo, così che coloro che si ammalavano morivano senza cura e soli, e trascinavano con sé i vicini e quelli che si prendevano cura (di loro) ormai contagiati dalla stessa malattia e i quotidiani cadaveri e i morti erano sotto gli occhi e da ogni parte di giorno e di notte si sentivano dei pianti. Infine i mali per l’abitudine rendevano insensibili gli animi così che non solo con le lacrime e un giusto pianto seguivano i morti, ma neppure li prendevano e li seppellivano, e i cadaveri sdraiati giacevano sotto la vista di quelli che aspettavano una simile sorte, e i morti infettavano i deboli e i deboli i sani sia con la paura, sia con l’epidemia e con il pestifero odore dei corpi, e per morire piuttosto per mezzo della spada alcuni da soli assalivano le stazioni dei nemici.”
La Peste libica (126-125 a.c.). Fu descritta da Paolo Orosio , sacerdote e scrittore lusitano, vissuto tra il quarto e il quinto secolo. Egli scrisse che “in Numidia mancarono 800mila viventi, sulla spiaggia sul lato di Cartagine e 30mila soldati romani a Utica, città situata nella costa tunisina il cui territorio oggi è parte della provincia di Biserta. La sua fu una rilettura tardoantica dell’evento. Per Orosio, pesbitero spagnolo, nelle Historiae aduersus Paganos librim septem, la descrizione delle calamità, quali la peste libica, pare essere stata ispirata dall’invito di Agostino ad esprimersi contro l’atteggiamento dei pagani, pronti ad addebitare all’avvento del cristianesimo e all’abbandono degli antichi culti l’addensarsi di ogni genere di mali sull’umanità, nonché più specificatamente dal suo suggerimento, di rileggere le opere anteriori per ricavarne dati su guerre funeste, epidemie, carestie, fenomeni naturali a carattere catastrofico.
La storia e la letteratura insegnano che al di là dell’estremo e concreto realismo descrittivo, ciò che si rileva è l’attenzione agli aspetti psicologici e sociali dell’epidemia. Non solo viene messa a rischio l’esistenza fisica degli individui, le relazioni familiari , affettive, nonché i valori morali e le norme della società.
Rosa Giaquinta